Località: Sassoferrato
Spazio: Palazzo degli Scalzi
Indirizzo: Via Giuseppe Mazzini
Periodo: 10 novembre – 2 dicembre
Orario: sabato e domenica 15,30 – 18,30
Titolo: Geografie di superficie
Artisti: Lughia, Caterina Prato
Curatore: Giuseppe Salerno
Patrocini: Comune di Sassoferrato
Testi in catalogo: Andrea Baffoni, Pippo Cosenza, Giuseppe Salerno
Inaugurazione: sabato 10 novembre ore 17,30
Con “Geografie di Superficie” Lughia e Caterina danno seguito a “Dissolvenze Incrociate”, progetto che le ha viste intrecciare per la prima volta le rispettive specificità in opere che sono il prodotto di un processo realizzativo condiviso.
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Vi sono mostre nelle quali sono le opere in sé a reclamare da subito attenzione tanto sul piano formale che concettuale. Ve ne sono altre per le quali, fermo restando una loro valenza formale e concettuale, si rende necessario rivolgere in primis l’interesse alla fase processuale, trattandosi di lavori chiamati a rispondere a caratteri concordati o frutto di percorsi esecutivi predeterminati.
A questa seconda categoria appartiene “Geografie di superficie”, mostra progettuale nata dal sodalizio di Lughia e Caterina Prato, artiste che hanno recentemente vissuto un’esperienza comune realizzando un’opera in quattro tavole rifacentesi al meccanismo della “dissolvenza incrociata”, mutuato dal mondo del cinema. Due tavole prodotte dall’una e altrettante dall’altra. Poi lo scambio delle due centrali sulle quali tornare ad intervenire con i rispettivi caratteri. Un’opera che nella sequenza delle quattro tavole vede i connotati delle due artiste incontrarsi e dissolversi gli uni in quelli dell’altra. Un’esperienza illuminante e ricca di implicazioni che ha aperto prospettive e suscitato interrogativi.
Per dare soluzione ad uno di tali interrogativi nasce la nuova esposizione. A chi appartiene l’opera che, pena la sua totale perdita di senso, non merita di essere smembrata? Le due artiste decidono di ripetere l’esperienza realizzando nel medesimo formato un nuovo lavoro cosicché ciascuna resti poi proprietaria di un’opera nella sua interezza. Concordano inoltre di produrre ciascuna cinque nuovi lavori nel formato 70×70, di scambiarseli e intervenirvi sopra al punto di renderli opere proprie. Un processo che rifacendosi a “Sopraffactions”, esperienza avviata da Lughia nel 2009, conferisce alla mostra nella sua interezza un’articolazione che ci induce a soffermarci massimamente sull’importanza del confronto e dell’arricchimento che ne consegue. Questi gli aspetti di procedura concordata senza la cui conoscenza l’osservazione pura e semplice delle opere non sarebbe sufficiente per apprezzarne a pieno il valore.
Svelati tali meccanismi ci si trova con “Geografie di Superficie” di fronte ad opere che nell’immediato ci inducono ad un’ennesima riflessione sull’arte. L’opera, da quanto possiamo osservare, risulta consistere non in una “creazione” emersa dal nulla, ma nel valore aggiunto conferito ad elementi divenuti oggetto di appropriazione. Con tale assunto autore dell’opera è colui che impossessandosi di ciò che lo circonda, sia essa appropriazione fisica o meramente sensoriale, dimostri capacità di ben riorganizzare linguisticamente il tutto in forme permeate di quel sentire “unico” che contraddistingue ciascun artista.
Così resettate le nostre capacità percettive entriamo finalmente in rapporto con gli aspetti contenutistici di lavori che ci offrono visioni assolutamente lucide della complessità che governa l’universo nel suo inarrestabile divenire e, con essa, i destini di un’umanità che, in una condizione nomade e globalizzata, esprime il suo “disperato” bisogno di ancoraggio.
Con una sintonia a dir poco straordinaria Lughia e Caterina Prato indagano in autonomia le geografie dei territori e delle menti offrendoci, frammiste a brandelli di vissuto personale, visioni spiazzanti, risultanti di ribaltamenti, sedimentazioni e slittamenti, di indeterminazioni, di aspirazioni confuse, di memorie millenarie in dissolvimento.
Benché opere ascrivibili all’una o all’altra, la speciale architettura d’insieme rende marginale, se non addirittura sminuente la preziosità del lavoro condiviso, una lettura separata dei caratteri delle singole artiste. Dalla commistione delle due sensibilità emergono infatti quelle verità di fondo che, manifestate in forme e modalità diverse, e per certi versi complementari, ci appaiono ora chiare nella loro complessità.
In una visione generale non possiamo non sottolineare il coerente crescendo di coinvolgimento emotivo e razionale quando dalle geografie della prima dissolvenza le artiste migrano a quelle della seconda.
Risulta evidente come le morbide, concrete colline della Val d’Orcia offuscate dal contingente ricordo del terremoto (evocato da una chiesa ripartita in frammenti) cedano il posto, nella seconda condivisione, all’ampio bacino del Mediterraneo dove si dà questa volta spazio, in una dimensione atemporale, alla coesistenza d’ogni cosa in un turbinio che vede le culture in dissolvimento e le terre in lento, inarrestabile movimento al pari di un’umanità destabilizzata, nomade e votata alla perdita dell’identità.
Senza riferimenti certi ogni parametro, prodotto dell’umana sapienza, perde di senso. Nord, sud, sopra, sotto, prima e dopo risuonano parole vuote in un universo nel quale a nessuno più interessano nel mentre che la presunzione umana rivela tutta la sua miseria. Rappresentazione fantastica questa della solitudine e dello smarrimento che accompagna il nostro tempo.
A Lughia e Caterina Prato il merito di essersi rese interpreti, in rapporto ad un universo senza inizio e senza fine, di piccole geografie umane che ci appaiono adesso insignificanti, di superficie e destinate all’oblio.
Giuseppe Salerno